IL SILLABARIO DI PAOLA |
"Autoritratto continuo, giocoso, divertente, nostalgico, dolce, ironico, sereno, giocondo, fuori di testa, ossessionante, arioso, incredibile, umano, profumato, colorato, scoppiettante, inaspettato, sorprendente, disincantato, profondo, maldestro, estroverso, vitale, verdeggiante, spazioso, di una orceana." Un sillabario è un insieme di simboli scritti che rimandano a sillabe, compongono parole lasciapassare per significati, ambienti per atmosfere, spazi per echi e suoni. Quello di Paola Ratti evoca la storia e le origini della pittrice, ci conduce nel cuore della pianura bresciana, tra le contrade di Orzinuovi, dentro l'Italia rurale di un tempo. ... racconti cromatici, vena neonaturalistica interpretata fuori dagli schemi burocratici dell'appartenenza ad una scuola. Paola Ratti dipinge com'è del verso salmodiante, poetico e di gratitudine al Dio della tua vita. Un canto laico, figlio della terra e della comunità, reciprocamente regolate, l'una nell'altra. Un'eco del mito di Proserpina, gioiosa e infuocata fino alla dispersione nel sole. L'elemento ludico è fondamentale. La vita comincia con l'infanzia; comincia con questo scoprire il mistero del mondo. È giusto che, di fronte alle disillusioni, noi riusciamo a rinnovarci attraverso il riscoprimento quotidiano di questo mondo straordinario, di questo paradiso terrestre che, nonostante tutti gli inferni quotidiani, esiste veramente per chi lo sa vivere. ... collage suggestivo, un itinerarium cordis ideale alla ricerca di atmosfere che rimandano a una condizione esistenziale: i tempi della memoria così assenti dai nostri giorni convulsi e distratti... Dipingere è come respirare per Paola Ratti, respirare nella natura e della natura. È una capacità di simbiosi trasmessa, ed è questo un regalo di cui le siamo grati. La pittura di Paola Ratti trae alimento da un impatto con la realtà che è profondamente ottimistico, ci dice che se ancora può esistere un paesaggio incantato, là deve essere un messaggio d'amore. |
I LUOGHI DEL PASSATO E IL SENTIMENTO DEL PRESENTE. Le opere di Paola Ratti |
“Scrivere un romanzo o viverne uno non è affatto la stessa cosa, checché se ne possa dire, e tuttavia, non è possibile separare la nostra vita dalle nostre opere” (M. Proust) |
Dichiarare la propria esistenza, esprimendo il proprio mondo interiore, costituisce una delle motivazioni più antiche e più urgenti della produzione artistica. Tutta la storia delle arti visive ha in questo côté espressivo uno dei pilastri fondanti della propria essenza, sempre presente come spinta al fare, dalle incisioni preistoriche, a tutta l’ampia area dell’arte “primitiva” variamente intesa, ai graffiti metropolitani, agli artisti della Lowbrow Art, ai Writers delle diverse generazioni, ma anche agli interstizi affascinanti e inquietanti dell’Art Brut. Certo, questa motivazione compare insieme ad un ricco ulteriore arcipelago di istanze, intenti e obiettivi spesso sottaciuti, qualche volta urlati, ma mai tanto incombenti da offuscare totalmente quell’iniziale e sincero bisogno di delineare i margini del proprio esistere, di distinguerlo da quello degli altri, pur nel contesto reticolare in cui l’artista è sempre vissuto e della cui complessità oggi è forse più consapevole. Storicamente, fino a quando l’operare artistico ha ottemperato alle regole del rapporto committenza-realizzazione, e alla gerarchia dei generi, l’artista ha dovuto inventarsi dei territori d’azione della propria individualità all’interno di una codificazione riconosciuta, sfruttando le pieghe del tessuto ufficiale, riservandosi scorci di punti vista, sguardi defilati, occhiate sfuggenti ma palesemente personalissime. Solo l’autoritratto, iconografia “regina” di questo filone, può leggersi come una finestra appena un po’ più liberamente ariosa – qualche volta – nel contesto della produzione artistica di impianto accademico. Quando poi i vincoli della tradizione hanno cominciato ad allentarsi, nel tardo Ottocento, l’individualità del singolo artista ha potuto emergere in tutta la sua forza, esprimendo non di rado profili di ampio spessore culturale e di originalissimo linguaggio artistico, spesso provenienti da storie personali decisamente eccentriche rispetto alla consuetudine. Il pensiero va ad un artista come Henry Rousseau (1884-1910), capace di una visione assolutamente originale della realtà nella Francia dello scorcio del XIX secolo, e artefice di un linguaggio che non trova similitudini possibili. La sua modesta vita di Doganiere è spessissimo fonte ed ispirazione della sua produzione, ma lo diventa anche la negazione della quotidianità, nei voli fantastici in un mondo esotico mai visto ma intensamente immaginato, proposto sulla tela con colori e simboli tanto irreali quanto affascinanti. Ugualmente la memoria della sua cultura e dei suoi affetti costituisce il filo conduttore della sognante produzione di Marc Chagall (1887-1985). In fondo, da ebreo errante quale diventa, Chagall non fa che rappresentare sempre se stesso, nell’altalena emotiva della vita, e in un codice espressivo che con fatica e spesso senza convinzione si riesce ad inserire nelle tendenze artistiche del contesto storico di appartenenza. Così come prepotentemente esplode nelle apparenti stravaganze di Marcel Duchamp (1887-1968) il bisogno di affermare la propria capacità concettuale - prima e davanti - la realizzazione stessa del prodotto artistico. Più recentemente, nel secondo Novecento, il concetto dell’affermazione di sé è stato a lungo legato al “gesto” essenziale o al “segno” strutturante, in modalità che vanno dalla performance al segno pittorico più o meno compiaciuto. Ma, dopo decenni di stravolgenti e memorabili sperimentazioni linguistiche e contenutistiche, dopo lunghi tempi di intricate – e comunque arricchenti – esplorazioni nei vasti territori dell’alfabeto e del lessico dell’arte, qualcuno ha provato a uscire dalle logiche del “club degli artisti” e – come quei grandi artisti isolati – a ripartire da sé. In tutti i sensi. Dalla propria individuale dichiarazione di esistenza, motivazione elementare, ma insieme obiettivo di arduo raggiungimento, che presuppone un fondamentale percorso di presa in carico del proprio vissuto. E dalla propria autonoma scelta linguistica, estranea a questioni comunicative ampiamente dibattute ma qualche volta autoreferenziali, e tesa piuttosto a cercare un contatto prima con i propri sentimenti e poi con il pubblico. Così nasce la serie di opere su tela di Paola Ratti, che agli inizi degli anni Novanta decide di concentrarsi sull’espressione del suo trascorso personale. L’artista vi giunge dopo una lunga militanza nelle arti decorative su tessuto, su ceramica e a fresco, dopo cioè una gavetta fatta di padronanza tecnica dei formati più disparati, di valutazione degli effetti cromatici più originali, di acquisita capacità di adeguare forme a forme e immagini a supporti, di gestione delle grandi dimensioni dell’affresco e dei minuscoli spazi della ceramica. Tutto su un costante e attento bisogno di disegno, la rete di sostegno su cui poggia il suo talento. Comincia con il ricordo degli alberi, dei cespugli, degli sterpi, dei giunchi e delle erbe della sua terra bresciana (Gli alberi di Paola Ratti, 1991, Orzinuovi). Il linguaggio è apparentemente semplice, l’atmosfera rappresentativa è volutamente filtrata dal tempo e oscilla tra il giocoso e il surreale. In realtà la presenza di elementi vegetali è strumento di attivazione di una sorta di memoria emotiva, che lentamente penetra e dilaga nei suoi stessi meandri, e scopre un mondo intero sedimentato nella memoria (Le case della mia valle, Rota d’Imagna, 1992; Terra d’infanzia: i fossi, Collebeato, 1995). Il soffione, il trifoglio, la sanguanìna (scopa fatta con rami di salice), il carrubo, il gelso, le pannocchie si distinguono accuratamente nelle sue tele. Appaiono i suoi “fossi”, quelli che solcano la terra grassa e piatta della pianura di Lombardia, che contengono a fatica le acque in continuo movimento delle risorgive, dei torrenti, dei canali e delle rogge. Come d’incanto rivive un tempo che sembrava irrimediabilmente perduto e dimenticato: quello della vita in cascina, dei giochi di bimbi, della fatica del vivere, del Nido di un’infanzia lontana non tanto nel tempo quanto nella percezione (Per fossi e per gioco, Orzinuovi, 2000; Libera-mente, Collebeato, 2005). Rivivono sonorità e gestualità sopite nel profondo del proprio essere e mai del tutto dimenticate, come le note allegre delle filastrocche “carine ma sciocche” (Se fossi una regina) che si ritmavano con il piede, e che accompagnavano i giochi dei bambini nei pomeriggi sull’erba, dolce atmosfera di un ricordo che potrebbe diventare agro. Oppure le danze semplici e ripetitive di chi ha trascorso infanzia e adolescenza nelle aie padane, tra il fieno e il granturco, giocando a La campana tra la biancheria stesa ad asciugare dopo il gran bucato, girando in tondo mano nella mano con l’amichetto e la suora cantando La pecora nel bosco oppure Ecco il treno. Là ne L’aia della nonna Teresa, dove si giocava a Mondo disegnando i numeri per terra con un legnetto bruciato. In fondo, sono le stesse memorie di chi pur non avendo dietro sé un passato così strettamente contadino, ha sperimentato la povertà – ampiamente diffusa in certe epoche italiane – del gioco del Trenino fatto con le sedie impagliate della cucina o dei Melgàs a cavallo di fusti di granturco. Quella che fa dire dalla gente, alla bimbetta cui è nato un fratellino, I t'a scürtàt el camisì (Il camicino), perché c’è un’altra bocca da sfamare in casa e sarà opportuno togliere – non solo metaforicamente – ai più grandi per dare ai più piccoli. Ha sicuramente una profonda valenza antropologica questa produzione di Paola Ratti, costituisce di fatto il documento di un cultura contadina che si è perpetuata nel tempo e che ancora fino a pochi decenni fa costituiva l’ossatura della società con i suoi tempi, i suoi valori, i suoi miti. Per raccontare questo suo mondo Paola Ratti ha scelto un particolare tono di figurazione, che si avvale di tenere immagini infantili, spesso comprese in un importante tratto contenitivo, e ravvivate dalla cromìa brillante dell’acrilico. L’artista ama la linea curva e morbida, che ondeggia sulla tela, entra ed esce dalle figure e in qualche modo le congiunge, siano esse umane o naturali, in un effetto finale che rimanda in parte alle dolcezze asimmetriche della pittura simbolista (ad esempio nel recente Melo n.1 o in L’albero dei segreti n.2, singolarmente vicino all’ Idillio primaverile di Pellizza da Volpedo), in parte alle modalità comunicative della Pop art per il sapore vagamente fumettistico, per l’uso dell’ acrilico e spesso anche per la presenza dei grandi formati. Ne scaturisce una pittura sorridente, capace di nostalgie decadenti e di toni incantati ed evocativi, come nelle tarde opere di un Antonio Bueno, o di forti impatti cromatici alla Valerio Adami, come in Minaccia. E ad osservare i suoi stessi ricordi c’è lei, l’artista. Osserva, nascosta appena dietro un confine, l’immancabile fiocco tra i capelli neri e lisci che ancora oggi porta. In Io tengo una mucca da latte sembra spiare gli animaletti fatti con i fogli di quaderno, ricordi di scuola e di gioco, di gioia e di noia, con gli occhioni grandi ed espressivi. Guarda indispettita, le braccia ripiegate dietro la schiena, L’altalena dei maschi, una vorticosa giostra sicuramente divertentissima ma vietata alle gonne femminili. Si gode da un punto esterno e lontano la piazza del paese su cui splende L’arcobaleno: ci sono i tetti colorati e gli omini piccoli piccoli che passeggiano nei porticati, mentre la bimba-bambolina con il fiocco fra i capelli è là, fuori dal contesto. In Minaccia è l’innocente fanciulla che campeggia al centro della tela, mandata dai “grandi” ad incrociare sul terreno due beneauguranti ramoscelli di ulivo, mentre arriva la tempesta. La presenza costante del suo viso fa di queste opere di fatto degli autoritratti, o meglio, fa di esse tutte insieme un unico autoritratto, realizzato con il mosaico dei propri ricordi. Un autoritratto lungo quanto tutta l’infanzia, ma rappresentativo di se stessa com’è ora, con i suoi pensieri, con i suoi ricordi, le sue malinconie e le sue distanze dal passato. Un passato che pure è così profondamente radicato da diventare pensiero frequente, costante, attuale |
Febbraio 2008, Antonia Abbattista Finocchiaro |